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PROFESSIONE LEGALE E AI: UN'ALLEANZA STRATEGICA O UNA SFIDA DA GOVERNARE.

  • Immagine del redattore: Studio Legale Bruschi
    Studio Legale Bruschi
  • 1 giorno fa
  • Tempo di lettura: 2 min

L’intelligenza artificiale (IA) ha ormai oltrepassato la porta degli studi legali, ma quale strumento operativo impiegato quotidianamente nella redazione di pareri, nella ricerca giurisprudenziale, nell’analisi predittiva dei contenziosi e nella gestione di flussi documentali complessi.

Eppure, si impone un interrogativo fondamentale: l’IA è destinata a sostituire, almeno in parte, l’attività dell’avvocato? E, di conseguenza, il cliente ha diritto di sapere se l’assistenza legale che riceve è stata elaborata, anche solo in parte, da un algoritmo?

Su questo punto interviene, il disegno di legge A.C. 2316, attualmente all’esame della Camera dei Deputati, il quale introduce un principio destinato a incidere profondamente sulla deontologia e sulla trasparenza nell’esercizio delle professioni intellettuali: l’obbligo per il professionista di informare in maniera chiara, preventiva e intelligibile circa l’uso di sistemi di intelligenza artificiale.

Non saranno più ammesse comunicazioni vaghe, oscuri richiami a “tecnologie evolute” o informative scritte in caratteri minuscoli o tecnicismi incomprensibili: si pretende, al contrario, una via rigorosa basata sulla trasparenza verso il cittadino medio, in ossequio a quel principio di correttezza e lealtà professionale che già ispira il Codice Deontologico Forense.

Il legislatore mostra consapevolezza dei benefici dell’IA nell’ottica di un’efficienza funzionale al diritto di difesa – specie in contesti complessi come le azioni collettive o le controversie transfrontaliere – ma fissa un limite netto: le decisioni giuridiche che implicano valutazioni, assunzione di responsabilità o esercizio del libero convincimento non possono, né potranno mai, essere delegate a una macchina.

La stessa giurisprudenza inizia a fissare paletti. Si segnala in tal senso l’ordinanza del Tribunale delle Imprese di Firenze del 14 marzo 2025, che ha stigmatizzato l’adozione “automatica” di testi generati da IA nella redazione di atti giudiziari. Il Collegio ha sottolineato che nessun algoritmo, per quanto sofisticato, è in grado di cogliere l’interesse concreto del cliente, né tantomeno di valutare l’opportunità tattica di una determinata difesa, evidenziando come l’attività forense non sia mera composizione logica di contenuti, ma atto di giudizio, esperienza e responsabilità.

Del resto, l’IA, per sua natura, non possiede coscienza né sensibilità etica. Non conosce i valori del foro, non sa che cosa significhi portare il peso di una decisione errata. Solo il professionista può – e deve – assumersi tale onere.

In un’epoca espressione di velocità e sviluppo costante verso la tecnologia, accogliere l’innovazione è un dovere professionale, non solo per restare competitivi, ma per garantire un servizio aggiornato, efficiente e all’altezza delle nuove sfide.

Tuttavia, tutto ciò deve avvenire con spirito critico e senza mai smarrire il senso autentico del mestiere: servire la giustizia, tutelare i diritti, interpretare il diritto alla luce della persona.

Perché il diritto non è un algoritmo. È, ancora, un’arte che vive nella parola, nella sensibilità umana e nella responsabilità personale. E soprattutto, nella fiducia che il cliente ripone nel proprio avvocato – non in una macchina.

Accogliere l’innovazione è necessario e doveroso, ma senza mai smarrire il senso profondo del nostro mestiere: servire il diritto con competenza, giudizio, e rispetto per la persona.

Perché il diritto non è un algoritmo da ripetere. È un'arte che si fonda sulla fiducia, sulla sensibilità e sull’onore.

 
 
 

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